Vittorio Emanuele di Savoia nacque a Napoli la sera dell’11 novembre 1869, dove i genitori si trovavano in visita. Margherita aveva diciotto anni, Umberto venticinque.
Oltre che con i nomi di Vittorio Emanuele Ferdinando, in onore dei nonni, sua madre Margherita volle che venisse battezzato anche con i nomi di Maria e Gennaro in modo da distendere i rapporti con la Chiesa e conquistare l’affetto dei sudditi napoletani.
A otto anni, 1878, in seguito alla morte di Vittorio Emanuele II, diveniva Principe Ereditario e in una memorabile dimostrazione, sollevato sul balcone del Quirinale, riceveva dal popolo romano il primo saluto augurale.
A nove anni fu iscritto come torpediniere fra l’equipaggio della R. Nave Caracciolo. A dodici anni era fra gli allievi del Collegio Militare di Roma ed a quindici anni alla Scuola Militare di Modena.
Entrò a far parte dell’Esercito il 1° gennaio 1887 col grado di Sottotenente del 1° Reggimento Fanteria.
Percorse rapidamente tutti i gradi nel 1° e nel 5° Reggimento Fanteria. Nel 1890 fu promosso Colonnello e, dopo due anni, Generale Comandante la Brigata Como.
Aveva inoltre grandi passioni: era un’autorità nello studio della storia delle emissioni monetarie, tanto da pubblicare un’opera scientifica monumentale, in undici volumi: il “Corpus nummorum italicorum”.
“Il suo matrimonio fu felice”
La questione del matrimonio del giovane Principe divenne oggetto di estrema preoccupazione per Umberto e Margherita: nessun Savoia era giunto alla soglia dei venticinque anni scapolo e lo stesso Vittorio non mostrava alcuna intenzione di sposarsi. Dopo vari tentativi venne combinato il matrimonio tra il ventisettenne principe di Napoli e una principessa montenegrina, Elena, la cui famiglia era molto legata, da vincoli politici e familiari, alla Corte di San Pietroburgo. Il primo incontro tra i due avvenne a Venezia nel 1895, durante l’inaugurazione dell’Esposizione Internazionale dell’arte. Il secondo incontro tra i due avvenne tredici mesi dopo a Mosca, durante i festeggiamenti per l’incoronazione dello zar Nicola II, e finalmente il giovane Vittorio si dimostrò veramente interessato alla giovane Elena, tanto che decise di parlarne ai suoi genitori. Il matrimonio, per nulla sfarzoso, fu celebrato al Quirinale con rito civile, seguito da quello religioso cattolico nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri il 24 ottobre 1896.
Dall’unione nasceranno cinque figli: Iolanda (1901), Mafalda (1902), Umberto (1904), Giovanna (1907) e Maria Francesca (1914).
Il 29 luglio 1900 la morte dell’amatissimo Padre suo (Umberto I) e della conseguente sua ascensione al trono, lo raggiunse durante una crociera nei mari dell’oriente.
Con la lui la monarchia italiana si modificò profondamente; per certi aspetti si europeizzò, avvicinandosi ai parametri delle grandi democrazie del Nord Europa. Nel 1904, lasciò il Quirinale per recarsi ad abitare nella amata villa Savoia, con la sua famiglia. La sua era una vita spartana: alle 09.00 arrivava in ufficio, alle 13.00 colazione a casa; alle 16.00 di nuovo al Quirinale fino alle 19.30; seguiva il pranzo serale e alle 21.00, poi si coricava a letto. Per tutta la vita si comportò così.
Dopo l’impresa libica (19011-12), nella prima guerra mondiale il Re sostenne la posizione inizialmente neutrale dell’Italia. Fu molto meno favorevole rispetto al padre per ciò che riguarda la Triplice Alleanza e fu ostile all’Austria; promosse inoltre la causa dell’irredentismo del Trentino e della Venezia Giulia.
Le ostilità sul fronte italiano iniziarono il 24 maggio 1915. Durante le operazioni affidò la Luogotenenza del Regno allo zio Tommaso Duca di Genova. Invece di stabilirsi nella sede del Quartier Generale di Udine, il Re alloggiò nel vicino paese di Torreano di Martignacco, presso Villa Linussa (da allora chiamata Villa Italia). Dopo la battaglia di Caporetto, l’8 novembre 1917, al Convegno di Peschiera, convinse gli scettici Primi Ministri Alleati – specialmente Lloyd George di Gran Bretagna – che la volontà dell’Italia era quella di resistere, e che lo Stato Maggiore Italiano era determinato a fermare l’avanzata nemica sul Piave: gettò di fatto le basi per la vittoria di Vittorio Veneto del novembre successivo.
Il rapporto con Mussolini fu sempre improntato alla assoluta formalità dettata dalle regole dello Statuto.
Infatti Vittorio Emanuele III, nei momenti più significativi del suo regno, ha sempre agito nel rispetto dello Statuto Albertino (allora in vigore) e della volontà del popolo, mai rinunciando, comunque, alle sue prerogative di re. Basti ricordare la dichiarazione di guerra all’Austria – Ungheria (24 maggio 1915), avvenuta solo a seguito di voto parlamentare; oppure quando il 31 ottobre 1922 egli conferì i poteri al nuovo Governo di Mussolini, non certo per suo volere, ma solo a seguito della fiducia concessa al neo governo dalla Camera dei deputati, presieduta dall’On. Enrico De Nicola. “Fu l’irresponsabilità delle forze politiche che non riuscirono a formare un governo che causò l’incarico a Mussolini” (Amendola). Altro momento “controverso” fu la divulgazione delle leggi razziali. Il Re era contrario a quelle norme discriminatorie e rifiutò di firmarle per ben 2 volte, nella speranza che i parlamentari ci ripensassero. Vittorio Emanuele III sapeva che esistevano due possibilità: non firmare, con la prevedibile conseguenza che le leggi sarebbero state promulgate ugualmente e che Mussolini lo avrebbe esautorato, oppure firmare, facendo comunque il possibile affinché non venissero applicate rigidamente. Il segnale fermo e chiaro dei parlamentari di cui il Re aveva bisogno per bloccare la legge non arrivò, pertanto la terza volta fu costretto a firmare, ma, contemporaneamente, fu il primo a non attenersi rifiutando di licenziare dal suo incarico il medico ebreo Artom di Sant’Agnese, ginecologo di Corte.
Il 10 giugno 1940 quando il Re, pur di parere contrario, dopo aver percorso tutte le strade ufficiali e non per scongiurare tale evento, dichiarò guerra alla Francia ed all’Inghilterra, dichiarazione avvenuta comunque solo dopo il voto favorevole della Camera, sì dei fasci, ma pur sempre votata dal popolo. Il Re era conscio dell’impreparazione militare italiana e perché da sempre filo-britannico e avverso alle politiche della Germania nazista. Nei mesi precedenti, Vittorio Emanuele III, tramite il ministro della Real Casa Acquarone, aveva messo in atto un tentativo di rovesciare Mussolini; la legalità formale sarebbe stata salvaguardata ottenendo un voto di sfiducia dal Gran consiglio del fascismo e Ciano, che rifiutò, sarebbe stato chiamato a guidare il nuovo governo
Dopo qualche effimero successo in Egitto e nell’Africa orientale, i disastri che sopravvennero fra l’autunno 1940 e la primavera 1941 (fallito attacco alla Grecia, sconfitte navali di Taranto e Capo Matapan, perdita di gran parte dei territori italiani in Libia, perdita totale dei possedimenti in Africa orientale) rivelarono la debolezza delle forze italiane, che dovettero essere tratte d’impaccio dall’alleato tedesco sia nei Balcani (primavera 1941) che in Africa settentrionale.
La sconfitta nella seconda battaglia di El Alamein del 4 novembre 1942 portò nel giro di pochi mesi all’abbandono totale dell’Africa e poi all’invasione alleata della Sicilia (9 luglio 1943) e all’inizio di sistematici bombardamenti alleati sulle città italiane.
Queste nuove sconfitte spinsero il Gran consiglio del fascismo a votare contro il supporto alla politica di Mussolini (25 luglio 1943). Comunque già da giugno Vittorio Emanuele aveva intensificato i suoi contatti con esponenti dell’antifascismo, direttamente o mediante il ministro della Real Casa d’Acquarone. Il 22 luglio, all’indomani del vertice di Feltre tra Mussolini e Hitler e dopo il primo bombardamento di Roma, il sovrano aveva discusso con Mussolini della necessità di uscire dal conflitto lasciando soli i tedeschi e dell’evenienza di un avvicendamento alla presidenza del Consiglio.
Ormai arrivava alle orecchie “il rombo della battaglia a sud di Roma. I granatieri combattono con valore, ma tutto il resto dello schieramento fra la capitale, il mare e i colli Albani ha ceduto in poco tempo”. Roatta consigliò allora il ministro della guerra Sorice di far partire subito il Re. Racconta il Bartoli “il capo di Stato Maggiore dell’esercito conferma quanto ha già detto. Secondo lui, Roma può essere difesa solo per un tempo limitato, e il re e il governo, se credono di dover lasciare la capitale, devono farlo al più presto possibile per l’unica via libera, la Tiburtina, che porta verso l’Abruzzo. In questo caso sarebbe opportuno spostare le truppe che difendono la città nella zona di Tivoli in modo da non far coinvolgere inutilmente la capitale nei combattimenti. Badoglio approva l’esposizione di Roatta incaricandolo dell’esecuzione. Il re decide di partire”. Scriverà Badoglio che Vittorio Emanuele non sollevò obiezioni all’annuncio della partenza e aggiunse: “Resti ben stabilito che la responsabilità è esclusivamente mia”. Puntoni spiegherà che il Re aderì a malincuore ad abbandonare Roma.
La partenza del Re avvenne all’alba del giorno 9 settembre, mentre ai partenti arrivava l’eco della battaglia che la Divisione “Granatieri di Sardegna” ormai combatteva dalla sera avanti. Non è da escludere che, una volta prigioniero dei tedeschi con tutta la sua famiglia, il Re sarebbe stato, con molta probabilità, costretto, anche con la violenza, a sconfessare l’armistizio ed avallare un nuovo governo gradito ai tedeschi. Inoltre, con la cattura sarebbero rimaste annullate le sue prerogative, la sua rappresentanza, la sua funzione, quelle che gli erano state conferite ed affidate dalla Nazione per volontà della quale era Re. Andando pertanto a Brindisi, esso Re, sarebbe comunque rimasto sul territorio nazionale dal quale avrebbe potuto continuare ad esercitare legittimamente la propria alta funzione.
“Non bisogna dimenticare che il monarca pagò un prezzo personale molto alto per quell’accordo armistiziale. Sua figlia Mafalda, infatti, morirà, nel lager di Buchenwald, in Germania, il 28 agosto 1944”.
Due giorni dopo la sua partenza, l’11 settembre, il Re rivolse un proclama agli italiani con il quale comunicava che aveva autorizzato la richiesta dell’armistizio per il supremo bene della Patria, suo primo pensiero e scopo della sua vita e nell’intento di evitare gravi conseguenze, sofferenze e maggiori sacrifici, e che “per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i doveri di Re, col Governo e colle Autorità militari” si era trasferito in altro punto del libero suolo nazionale.
Fu per le scelte di Vittorio Emanuele III e del Principe Umberto, quale luogotenente generale del Regno, fatte nei difficili frangenti fra la fine dell’ultimo governo di Mussolini (25 luglio 1943) e l’8 settembre, e cioè: la decisione di costituire un governo che liberasse dallo statuto delle sovrastrutture fasciste, per consentire agli anglo – americani di “mettere al sicuro” i vertici istituzionali da rappresaglie per conservare la continuità dello Stato Italiano; l’allaccio immediato di contatti istituzionali con gli alleati, che non occuparono mai le province sotto il controllo del Regno d’Italia, e ne riconobbero la sovranità sui territori mano a mano liberati, sino a riaccreditare a Roma le rispettive rappresentanze diplomatiche una volta liberata la capitale e la ricostituzione di Forze Armate nazionali, che si impedì allo Stato Italiano di subire l’annullamento della sua esistenza statuale.
A Brindisi venne fissata la sede del governo: assicuratosi il riconoscimento anglo-americano, Vittorio Emanuele dichiarò formalmente guerra al Terzo Reich il 13 ottobre e gli Alleati accordarono all’Italia lo status di «nazione cobelligerante».
Nel frattempo si procedette alla riorganizzazione dell’esercito: il Re dovette affrontare la fronda dei ricostituiti partiti politici, allora ancora dei comitati di notabili, in particolare di quelli riuniti nel CLN di Roma presieduto da Bonomi. Anche da parte di notabili rimasti leali alla Corona, tra cui Benedetto Croce in un acceso discorso al Congresso di Bari, furono sollevate richieste di abdicazione del sovrano.
Ma Vittorio Emanuele non cedette neppure dinanzi alle forti pressioni esercitate dagli angloamericani, intendendo così difendere il principio monarchico e dinastico che lui stesso rappresentava e, al contempo, tentando di riaffermare almeno formalmente l’indipendenza dello Stato dalle ingerenze esterne.
Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto II di Savoia, circa un mese prima del referendum istituzionale del 2 giugno.
Morì il 28 dicembre 1947 ad Alessandria d’Egitto dove, con il titolo di “Conte di Pollenzo. Si spense quindi il giorno dopo la firma della Costituzione italiana che, con la XIII disposizione finale, avrebbe visto lo Stato avocare a sé i beni in Italia degli ex re di Casa Savoia e delle loro consorti. La morte di Vittorio Emanuele III in una casetta della campagna egiziana fu dovuta – come accertarono i medici – a una congestione polmonare degenerata in trombosi. Spirò alle 14.20, dopo essersi sentito male un’ultima volta alle 4.30 del mattino. Le sue ultime parole furono: “Quanto durerà ancora? Avrei delle cose importanti da sbrigare”, frase che egli rivolse al medico accorso al suo capezzale dopo il sopraggiungere della paralisi. Il re d’Egitto Faruq dispose che il defunto avesse funerali di carattere militare (col feretro cioè disposto su un affusto di cannone e scortato da un’adeguata rappresentanza delle forze armate egiziane); la salma di Vittorio Emanuele III – salutata durante l’esequie da 101 colpi di cannone – fu tumulata nella cattedrale cattolica latina di Alessandria d’Egitto.
Il 17 dicembre 2017, quasi in concomitanza con il settantesimo anniversario della morte, la salma di Vittorio Emanuele III è stata ufficialmente rimpatriata a bordo di un aereo dell’Aeronautica Militare Italiana e tumulata nella cappella di San Bernardo del santuario di Vicoforte, a fianco della moglie Elena (morta il 28 novembre 1952 a Montpellier in Francia), i cui resti vi erano stati traslati due giorni prima.