Federico Baistrocchi nacque il 9 giugno 1871 a Napoli dove il padre Achille, Generale dei Bersaglieri aveva sposato Elvira Santamaria Nicolini, una discendente di una nota famiglia di giureconsulti napoletani.
Il padre Achille (Parma 1821- Bologna 1895) era originario del Granducato di Parma. Partecipò da soldato nel 2° Battaglione di linea delle Truppe Parmensi alla campagna del 1848 (prima guerra d’indipendenza) per Carlo Alberto ed entrato a far parte del Regio Esercito con il grado di Sottotenente, prese parte al fatto d’armi della Sforzesca ed alla battaglia di Novara. Partecipò quindi al Corpo di Spedizione in Crimea ed alla campagna del 1859 (seconda guerra d’indipendenza). Promosso Capitano, nel 1860 scese con le truppe sabaude per la liberazione delle Due Sicilie e prese parte anche alle varie repressioni contro il brigantaggio. Nel 1866 partecipò alla terza guerra d’indipendenza e nel 1870 alla presa di Roma. Colonnello nel 1882, ebbe il comando del 23° RGT Fanteria (1882-84) e del Distretto di Bologna; collocato in posizione ausiliaria (1889), raggiunse nel 1891 il grado di Maggiore Generale nella riserva.
Federico Baistrocchi fu allievo del collegio militare della Nunziatella di Napoli dalla quale uscì Sottotenente di Artiglieria nel 1889. Tenente nel 1891, fu assegnato al 3° RGT da campagna a Bologna e partecipò alle operazioni contro i Dervisci per la liberazione del presidio di Adigrat.
Rimpatriato e promosso Capitano nel 1902 fu trasferito al 12° RGT da campagna a Capua e successivamente al 13° RGT a Roma e al 24° RGT a Napoli. Inviato in Libia nell’ottobre 1911 con il 2° RGT da campagna. Rimpatriato nel settembre 1912 tornò al 13° RGT. Promosso Tenente Colonnello nel marzo 1915, fu inviato al fronte come comandante del III°/13°, ottenendo una medaglia d’Argento (Val Popena Bassa, 12 settembre 1915) e una croce di guerra al Valore militare (Son Pauses 13, 14 e 15 giugno 1915) nel corso dell’anno. Inviato in Albania il 30 dicembre 1915, si occupò della linea difensiva della regione di Valona. Rimpatriato il 31 maggio 1916 e nominato comandante dell’Artiglieria della 44 Divisione venne promosso il 3 agosto Colonnello per meriti eccezionali, meritò una seconda medaglia d’Argento al Valore militare (Vallarsa-Pasubio-Lora-Alpe di Cosmagnon, giugno-settembre-ottobre 1916).
Nel gennaio 1917 assunse il comando del 15° RGT da campagna e poi del 22° raggruppamento d’assedio. Passato a comandare l’artiglieria prima della 47 e poi della 53 Divisione si distinse nella 10 battaglia dell’Isonzo sul Vodice. Ebbe quindi il comando dell’artiglieria del II° Corpo d’Armata con proprio suo superiore di grado il Generale Badoglio. Comandante dell’artiglieria della V e poi della VII Armata dal febbraio 1918, nel giugno fu promosso Brigadiere Generale e gli venne conferita la sua sesta medaglia al Valore, la croce di Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia (Valtellina- Valcamonica e Val Giudicarie, marzo-novembre 1918).
Al termine della “grande guerra”, nel febbraio 1919 fu nuovamente inviato in Libia in qualità di comandante dell’Artiglieria e all’inizio della riconquista della Tripolitania ma già da giugno fu rimpatriato per assumere il comando dell’artiglieria del X° Corpo d’Armata a Napoli.
Baistrocchi, trovandosi di residenza a Napoli, si iscrisse dapprima nel partito dell’ordine che nel 1920 lo portò al Consiglio Comunale e poi si iscrisse nel Partito Fascista che, nel 1924 lo portò alla Camera dei Deputati. Nelle tre successive legislature (27^, 28^ e 29^) tra il 1924 e il 1933, il Generale Baistrocchi in qualità di Deputato al Parlamento Nazionale non si occupò di politica ma esclusivamente di questioni militari intese a perfezionare e modernizzare l’Esercito e della riforma della legislazione penale militare.
Promosso Generale di Brigata nel gennaio 1923, nel maggio 1926 venne promosso Generale di Divisione e nominato comandante della 25à Divisione militare territoriale di Napoli.
Promosso Generale di Corpo d’Armata nel settembre 1931 assunse il comando del IV° Corpo d’Armata di Verona.
Il 22 luglio 1933 venne nominato direttamente da Mussolini a Sottosegretario di Stato per la Guerra e dal 1 ottobre 1934 a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Venne promosso Generale comandante designato d’Armata di Napoli il 31 ottobre 1935 e Generale d’Armata nel maggio 1936 quale riconoscimento per la sua opera di preparazione e di mobilitazione delle forse armate terrestri operanti in Africa Orientale.
Il 18 settembre 1936, Baistrocchi inviò una lettera a Mussolini nella quale, con una lucidità e franchezza eccezionale, rappresentava a lui le fatali conseguenze a cui sarebbe andata incontro l’Italia con la riduzione delle forze armate in Africa Orientale subito dopo la fine del conflitto.
Mussolini rispose a questa lettera con un atto di profonda ingratitudine e con la giustificazione di “un meritato riposo” che spettava al Generale dopo tanta fatica, destituì Baistrocchi da entrambi gli incarichi il 7 ottobre 1936 e contemporaneamente con Regio Decreto, il Re gli concesse il titolo di “Conte”.
Il 25 marzo 1939 fu nominato Senatore del Regno per la 30^ legislatura.
Il 18 ottobre 1944 fu collocato in ausiliaria per raggiunti limiti di età.
Morì a Roma il 31 maggio 1947.
Il 22 luglio 1933 Mussolini assunto il dicastero del Ministero della Guerra nominò il Generale Federico Baistrocchi Sottosegretario di Stato per la Guerra.
Baistrocchi fu promotore di un vasto piano di riorganizzazione e modernizzazione delle truppe del nostro Paese da attuarsi in due trienni: 1933-36 e 1936-39.
Il suo primo impegno da Sottosegretario fu la stesura della nuova legge di avanzamento ispirata a principi di indispensabile sfollamento e selezione dei quadri dell’Esercito, per cui gli ufficiali invecchiavano nei rispettivi gradi, verificandosi il fatto di blocchi di ufficiali superiori e inferiori della stessa età o quasi e questo a causa delle promozioni in massa avvenute nella prima guerra mondiale.
Baistrocchi si occupò di un piano di riforme che prevedeva l’ammodernamento delle armi in dotazione alla fanteria con l’introduzione di nuove armi di accompagnamento.
Le riforme iniziarono a prendere corpo con l’ordinamento varato l’11 ottobre 1934, che recepiva tutte le varianti apportate negli anni precedenti all’ordinamento del 1926 con ulteriori innovazioni: in primo luogo veniva mantenuta la distinzione tra esercito coloniale e metropolitano, rispettivamente articolati nei regi corpi delle truppe coloniali dell’Eritrea, della Somalia e della Libia e nelle armi dei carabinieri reali, di fanteria, di cavalleria, di artiglieria e del genio.
La avvertita necessità di sollevare le grandi unità operative dal compito della difesa statica dei nostri confini determinò lo Stato Maggiore ad istituire nel dicembre 1934 un corpo speciale denominato “Guardia alla Frontiera” (GAF) formato da reparti di fanteria, artiglieria e del genio con lo specifico compito di presidiare le opere della fortificazione permanente ed assicurare quindi la copertura dei confini.
Il suo progetto prevedeva anche nuove disposizioni per il trattamento e l’addestramento delle truppe che avrebbero contribuito a migliorare l’efficienza dell’Esercito e a renderlo più adatto alle esigenze della guerra moderna.
Sotto il profilo della strategia militare, l’opera di Baistrocchi fu particolarmente incisiva e determinò un punto di rottura rispetto alla precedente dottrina ancorata ancora alla concezione della “guerra di posizione” e fondata sullo sgretolamento lento e progressivo dell’avversario.
Nel giugno 1935 Baistrocchi diramò le “Direttive per l’impiego delle grandi unità” scritte di suo pugno e con queste veniva fissato il concetto della “guerra di movimento” secondo cui la battaglia si doveva vincere mediante l’impiego della Divisione e la manovra offensiva doveva puntare sulla sorpresa nell’ottica di una rapida e tempestiva iniziativa delle operazioni da realizzare con la superiorità delle forze e con un attacco decisivo che permettesse di portare la guerra nel territorio nemico. A completamento di quanto previsto dalle “Direttive”, nel 1936 furono emanate le “Norme per il combattimento della Divisione” che modificarono il vecchio binomio operativo artiglieria-fanteria e veniva esaltata la capacità combattiva della Divisione mediante l’impiego di aerei con funzione esplorative e di combattimento e delle nuove armi fra cui i carri d’assalto.
I principi strategici delineati da Baistrocchi e questa nuova dottrina d’impiego venne sperimentata nel corso delle grandi manovre militari in cui l’Esercito italiano fu contemporaneamente impegnato a fini addestrativi nel 1935 con l’impiego di 4 Armate in Alto Adige, Friuli, Lombardia e Abbruzzo, simulando territori di battaglia scelti in ragione della loro ubicazione strategica presso i confini o nel cuore della Penisola, per le loro caratteristiche montuose e di difficile accesso e simulando il teatro operativo africano in previsione della guerra italo-etiopica che verrà dichiarata da Mussolini alcuni mesi dopo, il 3 ottobre 1935.
Il Generale Baistrocchi non era stato favorevole all’impresa etiopica e aveva manifestato tutta la sua perplessità al Re e allo stesso Mussolini sugli imprevisti di una guerra condotta a 8000 km. dalla madrepatria e con l’incognita della chiusura del Canale di Suez ad opera degli inglesi che ne avevano il possesso e la gestione ma ricevuto però l’ordine di approntare i mezzi per questa impresa dette il meglio di se nella preparazione logistica per organizzare il Corpo di spedizione.
Fu questo immane sforzo logistico e gigantesco impiego di mezzi che consentì la conclusione positiva dell’impresa in brevissimo tempo contrariamente alle previsioni dei tecnici militari stranieri e sbalordì persino i più esperti e famosi strateghi militari coloniali francesi e inglesi, come fu confermato anche alla Camera inglese dei Comuni.
Fino ad allora, mai fu raggiunto nella storia militare, l’invio di un Esercito di oltre 400.000 uomini fornito di mezzi adeguati e trasportato a migliaia di km. dalla madrepatria per una azione coloniale.
Nel 1934 l’Etiopia era uno dei pochi Stati africani indipendenti e sovrani ammessi alla Società delle Nazioni e pertanto universalmente riconosciuto a livello giuridico internazionale. Il Regno di Etiopia era uno Stato antichissimo, portatore di una millenaria tradizione cristiana ortodossa ma solo nel 1855 il Re Teodoro II vi ripristinò l’antico regno dei Negus. Alcuni anni dopo, l’Inghilterra iniziò la prima campagna di conquista e si impadronì della Somalia. Tra il 1885 e il 1889 l’Italia conquistò la Somalia del Sud e l’Eritrea, la Francia invece conquistò l’attuale Gibuti, escludendo quindi ogni via d’accesso marittima all’Etiopia. Nel 1893 scoppiò la seconda guerra italo-etiopica che si risolse a favore degli etiopi del Negus Menelik con la storica sconfitta di Adua nel 1896 e il conseguente trattato di Uccialli.
Nel 1930 Ras Tafari Makkonen divenne Negus con il nome di Hailè Selassiè I e fece entrare in vigore una costituzione di tipo occidentale, nonostante la schiavitù, abolita solo ufficialmente, fosse ancora diffusa e gli schiavi fossero almeno un milione.
All’inizio degli anni ’30 l’espansione imperiale divenne uno dei temi favoriti del governo italiano fascista di Mussolini che mirava al controllo del Mediterraneo e aspirava alla ricostituzione di un Impero, sullo stile dell’Impero romano, a fare bella figura al confronto delle potenze imperialiste europee (Francia e Gran Bretagna) e vendicare la sconfitta subita ad Adua.
L’origine della nuova guerra italo-etiopica può risalire agli incidenti, comunque reali atti di ostilità etiopi che coinvolsero soldati etiopi (regolari e non) contro reparti italiani e somali e causarono molti morti da entrambi le parti.
Il 4 novembre 1934 il consolato italiano di Gondar fu attaccato e il successivo 5 dicembre, 1500 soldati abissini presero d’assalto il forte di Ual Ual causando la morte di circa 80 difensori italiani.
Il forte di Ual Ual fu costruito per il volere di Mussolini che reclamava il possedimento di alcuni pozzi d’acqua di grande importanza e anche se sulla carta erano in territorio etiope, erano in una zona di confine tra l’Etiopia e la Somalia italiana non perfettamente definita.
I tentativi di mediazione tra la Società delle Nazioni e le parti in causa non riuscirono a scongiurare la guerra e la proposta del ministro degli esteri inglese Eden non venne accettata. La Francia (ed il suo primo ministro Laval) preferì non schierarsi in quanto in quel periodo Mussolini aveva cominciato a mediare tra le democrazie europee e il governo nazista in ascesa e anche il Giappone si fece da parte.
Il 2 ottobre 1935 l’Italia dichiarò guerra all’Etiopia.
Il 5 ottobre venne conquistata Adigrat, il 6 ottobre venne occupata Adua, il 15 ottobre Axum e dopo una lunga sosta non approvata da Mussolini, il 9 novembre venne raggiunta Macallè.
Contemporaneamente all’inizio della campagna nel nord, un contingente comandato dal Generale Rodolfo Graziani avanzò dalla Somalia italiana sul fronte sud, incontrando deboli resistenze.
Il Generale Baistrocchi era molto esigente e per nulla disposto ad accettare situazioni che non condivideva. Arrivò al punto, in un memoriale del 4 novembre 1935, di rimproverare a De Bono di avere messo in campo un’organizzazione pesante, alla vecchia maniera, non idonea ad operazioni ardite e rapide come richiedeva quel tipo di guerra coloniale. Mussolini diede ragione a Baistrocchi, e ordinò a De Bono di essere più dinamico, ma questi obbiettò ragioni che non lo convinsero.
Il 28 novembre fu quindi richiamato in Patria e sostituito con il Maresciallo Pietro Badoglio. Questi, anziché proseguire l’avanzata, prese ulteriore tempo per migliorare la situazione logistica e tattica, ripiegando su Axum. Infatti, dopo avere atteso l’arrivo di altre 3 Divisioni da parte di Baistrocchi, più altre 2 sul fronte somalo, poté potenziare le sue forze contro più di 200.000 abissini, pressoché privi di artiglieria e aeroplani. Dopo tre mesi di sosta, Badoglio, con una manovra convergente sostenuta dall’artiglieria e dall’aviazione, riprese l’iniziativa conseguendo la vittoria dell’Amba Aradam (11-15 febbraio 1936) e annientando il grosso dell’esercito nemico. Il 28 febbraio venne occupata l’Amba Alagi e il 31 marzo, presso il Lago Ascianghi, veniva sbaragliata la guardia del corpo del Negus. Il 15 aprile venne occupata Dessiè.
Intanto sul fronte sud, era stato chiesto a Graziani di mantenere una difesa attiva al fine di mantenere impegnato contro di lui il maggior numero di truppe nemiche e di non passare all’offensiva ma il 20 gennaio occupò comunque la città di Neghelli e il 15 aprile si mosse ad occupare Harar.
Il 2 maggio Hailè Selassiè abbandonò la guida delle truppe etiopi e la capitale e fuggì muovendosi in treno per imbarcandosi a Gibuti.
Dopo l’occupazione di Harar, Graziani fu nominato Maresciallo d’Italia e marchese di Neghelli.
Il 5 maggio 1936, alle ore 16, Badoglio entrava vittorioso in Addis Abeba e lo stesso giorno la notizia della vittoria venne direttamente comunicata al popolo italiano dallo stesso Mussolini.
Il 7 maggio l’Italia annetté ufficialmente l’Abissinia e il 9 maggio, dal balcone di Palazzo Venezia il Duce annunciò la fine della guerra e proclamò la nascita dell’Impero riservando a Vittorio Emanuele III la carica di Imperatore d’Etiopia e per entrambi quella di Primo Maresciallo dell’Impero.
Baistrocchi e Badoglio furono compagni di corso al collegio militare della Nunziatella di Napoli ed entrambi parteciparono alla campagna di Eritrea del 1896 con la spedizione del Generale Baldissera nelle operazioni contro i Dervisci per la liberazione del presidio di Adigrat.
Durante la prima guerra mondiale, Badoglio ebbe un’accelerazione di carriera con la promozione a Maggiore Generale il 6 agosto 1916 e l’anno dopo a Tenente Generale con il comando del XXVII Corpo d’Armata. Dalla disfatta della battaglia di Caporetto (24 ottobre – 12 novembre 1917), Badoglio passò indenne nonostante una sua responsabilità oggettiva.
Quando il Generale Armando Diaz fu nominato Capo di Stato Maggiore con decreto del 9 novembre 1917, i Generali Badoglio e Giardino gli furono affiancati con il grado di Sotto Capo di Stato Maggiore. Nominato Senatore il 24 febbraio 1919, Badoglio fu poi promosso il 2 dicembre Capo di Stato Maggiore succedendo nell’incarico al Generale Diaz.
Quando Baistrocchi venne nominato da Mussolini Sottosegretario alla Guerra, Badoglio gli comunicò da subito le sue congratulazioni e soddisfazioni e gli fece presente la priorità degli impegni da svolgere.
Durante la campagna d’Etiopia, Il rapporto tra Baistrocchi e Badoglio iniziò bene ma deteriorò quando assunto il comando delle operazioni dal fronte eritreo (in sostituzione di De Bono), dopo avere promesso una immediata e risolutiva offensiva, Badoglio finì per restare paralizzato anche lui sulla stessa linea dove si era fermato De Bono.
Badoglio chiese allora due Divisioni di rinforzo e nonostante averne ricevute da Baistrocchi tre, continuò a restare fermo.
Graziani, al contrario, al comando delle operazioni dal fronte somalo, non chiedeva nulla e continuava ad avanzare. La strategia moderna risultava vincente sulle vecchie mentalità. E così l’avversione di Badoglio anche nei confronti di Graziani diventò odio che otto anni dopo, nel 1943, doveva portare i due schieramenti sulle opposte barricate della guerra civile.
Baistrocchi, preoccupato per il comportamento di Badoglio che sembrava addirittura sul punto di arretrare il fronte, lo mise sotto pressione e per evitare una sua brutta figura verso Mussolini e il mondo, lo indusse ad avanzare al pari di Graziani.
Mussolini minacciò di sostituire nel comando Badoglio proprio con Baistrocchi e questa notizia, arrivata alle orecchie dello stesso Badoglio, gli fece meditare una vendetta nei confronti di colui che invece lo aveva difeso e al termine della campagna, carico di gloria per l’impresa fatta, mentre lasciava l’Etiopia per rientrare in Italia, Badoglio riferì questo suo intento direttamente a Graziani.
Badoglio prese tutti gli onori e il merito della vittoria.; il Re gli concesse il titolo di Marchese di Addis Abeba e gli fu concessa la tessera onoraria del Partito Nazionale Fascista.
Gli intrighi di Badoglio, fecero sì che Baistrocchi (vero vincitore della campagna) venisse invece messo da parte da Mussolini e privato di altri autorevoli incarichi per essersi permesso di insistere veramente con lui affinché le ingenti forze ancora presenti, rimanessero in Etiopia, proprio in previsione di una futura guerra globale nella quale l’Impero di Mussolini sarebbe stato certamente perduto, previsione poi puntualmente verificatasi.
La vendetta di Badoglio nei confronti di Baistrocchi non terminò con la fine della guerra.
Su richiesta del Commissariato per le sanzioni contro il Fascismo, in conseguenza delle cariche militari da lui rivestite, Baistrocchi fu arrestato il 18 aprile 1945 nella sua abitazione di Roma e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli dove rimase per un anno e tre mesi in attesa del processo. Solo gli ultimi due mesi prima del processo li trascorse nel carcere militare di Forte Boccea. L’accusa era di avere, come Sottosegretario alla Guerra, compromesso e tradito le sorti del paese e averlo condotto alla catastrofe mediante la fascistizzazione dell’Esercito, influenzandone l’ordinamento, la tecnica militare, la regolamentazione, la disciplina, accuse che potevano essere rivolte più allo stesso Badoglio.
Il processo iniziò il 10 settembre 1946 e fu seguito da tutta la città. Il processo durò 12 giorni e si concluse il 22 settembre.
Baistrocchi respinse energicamente ogni accusa parlando 5 ore di seguito ed elencando esattamente il suo operato e le sue argomentazioni. Su richiesta dello stesso Pubblico Ministero, Consigliere di Cassazione Battaglini, Baistrocchi fu quindi assolto con formula piena, tra gli applausi del pubblico e grandi manifestazioni di approvazione.
Uscì dal carcere alle ore 15 del 22 settembre 1946 ma la vendetta di Badoglio continuò.
Tornato a casa si vide recapitare una ingiunzione a pagare 7.800.000 lire per fantasiosi profitti di regime.
Già debilitato dalla vicenda infamante del carcere, non resse a quest’ultimo oltraggio e pochi giorni dopo morì per un attacco di cuore, il 31 maggio 1947. Riposa alla Certosa di Bologna.
Tra le tante iniziative prese da Baistrocchi fu l’impulso che diede alla motorizzazione e meccanizzazione dell’Esercito trasformando e motorizzando reparti di cavalleria, bersaglieri, batterie di artiglieria e creando le prime unità corazzate e autotrasportate.
La mentalità diffusa e che dovette combattere era ancora quella degli amanti della trincea e della battaglia di logoramento in trincea.
Nella nuova dottrina per la guerra di movimento studiata da Baistrocchi, la meccanizzazione, cioè la possibilità di trasporto dei combattenti a bordo di veicoli blindati e corazzati, dai quali e con i quali poter combattere, aggiungendo quindi l’urto al fuoco, si accompagna alla motorizzazione e cioè alla possibilità di trasportare rapidamente i combattenti, appiedati, a bordo di veicoli ruotati, oppure di trasportare velocemente materiali a fini logistici.
La motorizzazione, così voluta da Baistrocchi, ebbe il suo trionfo con la guerra in Africa Orientale e con la creazione delle Divisioni motorizzate, una delle quali, la “Trento” venne anche inviata in Cirenaica per essere disponibile ad ogni evento.
Baistrocchi realizzò 3 Divisioni realmente celeri e pronte alla battaglia, dove reggimenti motorizzati potevano avere l’appoggio di una adeguata artiglieria oltre la presenza di unità di genio e servizi.
All’entrata in guerra nel 1940, la motorizzazione era ancora lontana dall’essere completata e il valido operato di Baistrocchi nel suo primo triennio 1933-36 venne annullato dall’operato sconsiderato dei suoi successori tanto che, Divisioni vennero successivamente, ad esempio, impiegate in guerra con l’identificazione di “autotrasportabili” e cioè: nel caso di disponibilità di mezzi di trasporto, l’unità era addestrata a muoversi con celerità altrimenti era anche addestrata a muoversi a piedi!
Nel corso della storia militare è sempre stata presente, per quanto riferito all’uniforme del soldato, l’esigenza di conciliare quello che potremmo definire l’aspetto estetico con altri d’ordine più pratico e molto spesso finalizzati alla protezione di parti vitali del corpo.
L’uso delle controspalline metalliche, per esempio, molto diffuso sin dal secolo XVI, oltre a dare al militare un ausilio per esaltare la sua prestanza fisica per quanto riferito alla dimensione delle spalle, forniva allo stesso una valida protezione dai fendenti di sciabola degli avversari. Lo stesso si può dire del classico cappellone a pelo dei Granatieri del 1848, che, pur servendo per proteggere il capo dai colpi di sciabola della Cavalleria, aveva un indubbio effetto psicologico nei confronti del nemico che si trovava contrapposto a questi uomini, alti a dismisura anche per effetto del copricapo indossato.
L’uso stesso di uniformi dai colori sgargianti (bianco per i francesi e gli austriaci, rosso per gli inglesi, blu-turchino per l’Armata sarda), che raggiunse il culmine nelle guerre napoleoniche e venne mantenuto dagli Eserciti europei fino ai primi anni del XX secolo, aveva un preciso scopo: quello di far riconoscere, da lontano, le truppe in azione sul campo di battaglia.
Con la circolare numero 458, pubblicata nel “Giornale Militare” del 4 dicembre 1908, venne adottato da tutto l’Esercito italiano il panno grigio-verde. Esso da quel momento, fino alla Guerra di Liberazione, fu il colore del militare italiano.
Salvo piccole variazioni rimarrà invariata per tutta la prima guerra mondiale.
Inizialmente furono adottati due modelli di giubba: uno per le armi a piedi e uno per le armi a cavallo ed entrambe avevano le manopole delle maniche a punta per potervi collocare i distintivi di grado a forma di “V” rovesciata.
I pantaloni, invece erano di tre modelli: uno per le armi a piedi non da montagna, uno per le truppe da montagna, l’ultimo, per le armi a cavallo.
Il berretto, invece, era di un unico modello: “a tubo”, munito di visiera e soggolo di cuoio tinti grigio-verde e con il fregio d’appartenenza ricamato in lana nera e cucito sul davanti.
Il nuovo berretto “a tubo” però tendeva a deformarsi, per cui, poco prima dello scoppio della guerra, insieme a questo venne anche usato un nuovo copricapo soprannominato dalla truppa “scodellino”, in quanto, a differenza dell’altro, non era di panno, ma in feltro grigio-verde e con cupola tondeggiante.
Precedentemente all’adozione della nuova uniforme per la truppa, con la circolare numero 53 pubblicata nel “Giornale Militare” del 1° febbraio 1909 venne adottata una nuova uniforme di panno grigio-verde anche per gli Ufficiali, in sostituzione, inizialmente, delle uniformi da campagna del 1901 di colore blu-turchino e ordinaria del 1907, in panno di lana nera e, con l’entrata in guerra nel 1915, in sostituzione della grande uniforme e uniforme da parata modello 1907, in panno di lana nera.
Nei primi mesi di guerra, le gravi perdite che si registrarono fra gli Ufficiali indussero il Comando Supremo ad adottare per loro una nuova uniforme, più idonea a cercare di mimetizzarli il più possibile tra la truppa.
Nacque così, nel settembre 1915, l’uniforme da combattimento per Ufficiali, confezionata con lo stesso panno grigio-verde da truppa.
Durante la prima guerra mondiale vennero adottati due modelli di elmetti per l’intero Esercito: l’emetto “Adrian” modello 1915 e l’emetto italiano modello 1916, entrambi con la possibilità da parte del possessore di apporvi il fregio dipinto del proprio reparto anteriormente ed eventualmente i distintivi di grado laterali (a forma di “V” rovesciata) per i soli Ufficiali.
Al termine della prima guerra mondiale, l’uniforme indossata durante la guerra vittoriosa, restò pressoché invariata ma una serie di successivi regolamenti ne modificarono l’aspetto.
Tornarono nel 1923 i baveri colorati e le filettature; ai pantaloni comparvero le doppie bande nere con al centro la filettatura nei colori caratteristici; per la grande uniforme (quella grigio-verde, l’unica regolamentare) vennero adottate speciali controspalline, dapprima grigio-verdi con nodi di Savoia intrecciati in oro e in argento; le giubbe di tutti si caratterizzarono per la presenza di quattro tasche orizzontali e sempre per il bavero chiuso da bottoni. .
Una serie di cinque successive varianti apportate al regolamento sull’uniforme in vigore dal 1931 e che furono avvallate dal Sottosegretario alla Guerra, Generale di Corpo d’Armata Federico Baistrocchi, diedero origine nel 1933-34 ad una notevole riforma nel settore delle uniformi del Regio Esercito italiano.
Veniva infatti disposta l’abolizione della giubba chiusa dal rigido collo diritto così come veniva abolito l’alto berretto a tubo che aveva caratterizzato alcune generazioni di militari.
Il cambiamento riguardò, in un primo tempo, solo le uniformi degli Ufficiali. A partire dal 20 marzo 1934 sarà esteso anche alle uniformi del resto del personale militare, truppa compresa.
Insieme all’adozione della nuova uniforme grigio-verde fu istituita, per i soli Ufficiali, una sontuosa uniforme nera di foggia ottocentesca, per venire incontro alle “esigenze di adattamento alle consuetudini di società”.
Anche la grande uniforme grigio-verde venne colpita dall’ondata di rinnovamento: scomparvero le tradizionali spalline con la frangia dorata o argentata, che sin dal 1814 avevano caratterizzato la grande uniforme degli Ufficiali, per cedere il passo a controspalline di metallo dorato, fatte ad imitazione di quelle di panno e portanti al centro, in rilievo, il fregio dorato proprio dell’Arma, Corpo o Servizio.
Con la riforma Baistrocchi fu prevista l’adozione anche dell’uniforme estiva. Questa (a parte l’uniforme bianca per Ufficiali e Marescialli) autorizzò, per l’uniforme di marcia degli Ufficiali (indossata senza giubba ma con camicia dove si applicavano i distintivi di grado sul taschino), l’uso di una cintura, o fascia di stoffa grigio-verde, sotto il cinturone.